Nel 2001, la questione della diversità non si poneva nemmeno; oggi, il dibattito è aperto (1) L'osservazione del quotidiano Libération salutava l'aumento (ritenuto ancora timido) del numero dei candidati di sinistra cosiddetti
della diversità alle elezioni municipali del marzo 2008. Ma la sinistra non ha il monopolio della riflessione sulla diversità, in Francia. Dopotutto, Nicolas Sarkozy, pochi mesi prima, aveva proposto di inserire questo valore nel preambolo della Costituzione; il capo dello stato intende infatti
accelerare decisamente l'espressione della
diversità etnica (2) all'interno delle élite.
Di fronte a questa dinamica francese, un americano può provare due sentimenti contraddittori. Innanzitutto, la sorpresa: da trent'anni, la diversità occupa un ruolo sempre più importante nella vita politica, sociale e, soprattutto, economica degli Stati uniti; come hanno potuto i francesi accumulare un tale ritardo? Poi, la delusione: perché mai la Francia ha deciso infine di recuperare questo ritardo? Questo libro non risponderà alla prima domanda, che in tutta evidenza rappresenta un argomento di studio per gli storici. Si dedica però alla seconda.
Lo schieramento dei sostenitori dichiarati della diversità – dagli indigeni della Repubblica (3) al capo dello stato – rappresenta, per le sue stesse dimensioni, un principio di risposta.
Se ne possono delineare meglio i contorni esaminando un quesito posto da un militante degli Indigeni della Repubblica non sulla diversità, ma sull'eguaglianza: Cosa significa concretamente la paradossale affermazione di un'eguaglianza tra ricchi e poveri, borghesi e proletari, imprenditori ed operai, padroni e servi, bianchi e non bianchi, uomini e donne, eterosessuali e omosessuali (4)? Ciò che conta è la forma stessa dell'interrogativo, e in particolare lo slittamento strutturale che si attua quando si mette su uno stesso piano l'opposizione tra padroni e servi, da un lato, e tra bianchi e non bianchi dall'altro.
Infatti, le diseguaglianze tra bianchi e non bianchi – e tra uomo e donna, eterosessuali e omosessuali… – derivano soprattutto da discriminazioni e pregiudizi. E poiché nascono dal razzismo e dal sessismo, per eliminarle basterà sradicare il razzismo e il sessismo.
Ma le diseguaglianze tra ricchi e poveri, imprenditori e operai non nascono dal razzismo né dal sessismo: esse derivano dai rapporti di proprietà e dal capitalismo. In materia di diseguaglianza economica, il razzismo e il sessismo funzionano come sistemi di smistamento: non generano la diseguaglianza in sé, ma ne distribuiscono gli effetti.
Ecco perché anche la più completa sconfitta di razzismo e sessismo non colmerebbe il divario tra ricchi e poveri; essa modificherebbe solo la sua ripartizione per sesso, inclinazione sessuale e colore della pelle. Una Francia in cui un maggior numero di neri fosse ricco non sarebbe automaticamente più egualitaria, ma solo un paese in cui il divario tra neri poveri e neri ricchi sarebbe maggiore.
Senza dubbio, la situazione francese presenta le sue peculiarità: dal dopoguerra fino alla fine degli anni '70, le correnti dominanti della sinistra si preoccupavano esclusivamente dell'uguaglianza economica.
Le questioni relative al femminismo, al razzismo, all'omosessualità ecc. erano relegate al rango di contraddizioni secondarie o semplicemente ignorate. Ma, in un quarto di secolo, la situazione è evoluta al punto da rovesciare l'ordine delle priorità: a partire dalla svolta liberale del 1983, la lotta contro le discriminazioni (illustrata in particolare da Sos-Racisme) ha preso il posto della fine del capitalismo, nella gerarchia degli obiettivi. Poiché esso si è spesso sostituito (invece di aggiungersi) alla lotta per l'eguaglianza, l'impegno in favore della diversità ha indebolito gli argini politici che contenevano la spinta liberale.
Un impegno tanto più consensuale in quanto non comporta alcuna redistribuzione di ricchezza La volontà di sconfiggere razzismo e sessismo si è rivelata compatibile con il liberismo economico, mentre la volontà di ridurre – non parliamo neppure di colmare – la distanza tra ricchi e poveri non lo è. Mentre esibiva il suo impegno in favore della diversità (combattendo i pregiudizi, ma anche celebrando le differenze), la classe dirigente francese ha accentuato la sua vocazione liberista. Questa tendenza, caratteristica della destra (cos'altro incarna Sarkozy?), si ritrova spesso nelle persone che si dichiarano di sinistra. In realtà, mentre la questione dell'identità nazionale rafforza il suo impatto sulla vita intellettuale francese – che la si celebri (il presidente della Repubblica) o che la si combatta (gli indigeni) – essa nasconde l'aumento delle disuguaglianze economiche che caratterizza il neoliberismo in tutto il mondo.
Non è certo mia intenzione sostenere che la discriminazione positiva (o l'impegno per la diversità in generale) aumenti le disuguaglianze.
Si tratta piuttosto di dimostrare che la concezione di giustizia sociale che sottintende la lotta per la diversità – i nostri problemi sociali fondamentali deriverebbero dalla discriminazione e dall'intolleranza piuttosto che dallo sfruttamento – si fondi anch'essa su una visione neoliberista. Si tratta, d'altro canto, di una parodia di giustizia sociale che ammette l'allargamento del divario economico tra ricchi e poveri finché tra i ricchi vi siano tanto (in proporzione) neri, bruni e gialli quanto bianchi, tanto donne quanto uomini, tanto omosessuali quanto eterosessuali. Una giustizia sociale che, in altri termini, accetta le ingiustizie generate dal capitalismo. E che ottimizza anche il sistema economico distribuendone le diseguaglianze senza distinzione di origine né di genere. La diversità non è un mezzo per instaurare eguaglianza; è un metodo di gestione della diseguaglianza.
Nonostante il loro tardivo avvicinamento alla causa della diversità e del neoliberismo, le classi dirigenti francesi imparano rapidamente.
Nel rapporto annuale 2006 dell'Alta Autorità nella lotta contro le discriminazioni e per l'eguaglianza (Halde), il presidente Louis Schweitzer espone la sua singolare visione di uguaglianza: Se si crede all'eguaglianza, l'assenza di diversità è il segno visibile di discriminazioni o di pari opportunità poco garantite (5). Insomma, se quelli che guadagnano più soldi di tutti sono solo bianchi e uomini, c'è un problema: se tra loro ci sono neri, scuri e donne, non c'è problema. Se la vostra origine o il vostro sesso vi priva delle possibilità di successo offerte agli altri, c'è un problema; se è la vostra povertà, va tutto bene.
Un certo numero di commentatori ritiene che la fonte stessa di tali riflessioni meriti cautela. D'altra parte, Schweitzer ha diretto a lungo la Renault, un'impresa condannata numerose volte per discriminazioni sindacali. In realtà, queste due obiezioni mancano il bersaglio.
Il problema della Halde non consiste nella scarsa diversità del comitato che la dirige. Se pure quest'istituzione rivaleggiasse in diversità con la squadra nazionale di Francia che fu campione del mondo di calcio nel 1998, la società francese non risulterebbe affatto meno diseguale, sul piano economico, per un goal segnato da Zinedine Zidane o da Lilian Thuram.
Il problema non è nemmeno che Schweitzer si sia reso responsabile di discriminazioni sindacali: non vi è alcuna ipocrisia nell'opporsi ai sindacati di sinistra mentre si sostiene la diversità. Analogamente, non vi è alcun conflitto tra la conservazione delle élite e la loro diversificazione: ci si sforza di diversificarle per legittimarle, non per eliminarle.
Da uomo d'affari navigato qual è, Schweitzer sa che l'impegno in favore della diversità rappresenta tanto una strategia manageriale quanto una posizione politica. La questione suscita d'altronde passioni altrettanto potenti nelle scuole di economia che tra gli Indigeni della Repubblica. Preoccupati di offrire ai futuri dirigenti di impresa una prospettiva “globale” dell'interculturalismo nel campo degli affari, Carlos e Javier Rabassó hanno pubblicato nel settembre 2007 una Introduzione al management interculturale. Per una gestione della diversità (6). Il saggio, che affianca nella stessa collana titoli come Marketing delle attività terziarie, Finanza di mercato, Strategia finanziaria e Il coaching in cinque tappe, riserva sorprese a chi si avventura all'interno dei capitoli dedicati alla diversità: praticamente ogni riga potrebbe essere stata scritta dagli estremisti di sinistra degli Indigeni della Repubblica.
Per esempio, la critica da parte di uno dei loro dirigenti, Sadri Khiari, nei confronti della sinistra unitaria (occuparsi della diversità culturale su scala mondiale ma non nella stessa Francia (7)) fa rima con quella dei fratelli Rabassó all'indirizzo dei governi europei, che sottintendono la diversità tranne che all'interno dei confini nazionali (p. 168). E così come gli Indigeni chiamano lo stato e la società a operare una riflessione critica sull'universalismo egualitario, affermato durante la Rivoluzione Francese (L'appello degli indigeni della Repubblica), i nostri due professori di marketing invocano una nuova “rivoluzione francese” fondata sui temi controversi della diversità, della discriminazione e dell'azione positiva (p.
194).
Cosa può significare il fatto che dei rappresentanti del mondo degli affari e dei discendenti dei nonni posti in schiavitù, colonizzati, animalizzati condividano la stessa visione del mondo? Che la diversità, nella sua accezione più ampia (origini etniche, sesso, handicap, età, orientamento sessuale) ha acquisito quello che il quotidiano finanziario Les Echos definisce uno status di imperativo economico (8) e che la sinistra si dimostra altrettanto pronta della destra a entusiasmarsi per questo nuovo imperativo.
In altri termini, che la logica secondo cui le questioni sociali fondamentali riguardano il rispetto delle differenze identitarie e non la riduzione delle differenze economiche comincia a diffondersi in Francia come già è avvenuto negli Stati uniti. Qui come laggiù, la destra neoliberista ha finalmente trovato una sinistra neoliberista che rivendica ciò che la destra è fin troppo felice di concederle.
E, quando si tratta di rendere il mercato del lavoro e il mercato finanziario più efficiente sviluppando la diversità in seno alle imprese (l'imperativo economico), questa sinistra rinnovata si mostra addirittura impaziente di svolgere un ruolo di avanguardia.
Parlare di convergenza tra destra neoliberista e sinistra neoliberista riguardo alla diversità può apparire sorprendente. Dopo tutto, Sarkozy non è stato eletto, nel 2007, sulla base di un programma che esaltava l'identità nazionale? Non ha forse, nel corso della campagna, conquistato gli intellettuali più conservatori, come Alain Finkielkraut? E una volta eletto non si è forse affrettato a instaurare un ministero dell'immigrazione e dell'identità nazionale? Tuttavia, poco dopo l'inaugurazione del ministero, Sarkozy dichiarava nel gennaio 2008: La diversità fa bene a tutti. Per poi annunciare che questa battaglia sarebbe stata al centro del suo mandato.
La sinistra neoliberista tuttavia continua ad attaccare spesso Sarkozy come se egli fosse davvero razzista. La spiegazione è allo stesso tempo semplice e logica: se la sinistra neoliberista non dipingesse la destra neoliberista come l'altra faccia della vecchia destra xenofoba, nulla permetterebbe di distinguere la prima dalla seconda. Così si spiega la felicità del direttore di Libération Laurent Joffrin non appena Sarkozy accenna il minimo borbottio preoccupante in tema di immigrazione e identità nazionale.
In verità, la sinistra neoliberista è essa stessa molto più vicina a Sarkozy di quanto quest'ultimo sia vicino a Jean-Marie Le Pen: entrambe sostengono il capitalismo (temperato), l'economia di mercato (regolata) e il libero scambio (ragionevole). Certo, il presidente francese ha un leggero vantaggio: se ne assume le responsabilità.
Il Partito socialista, invece – come nota lo stesso Joffrin con una certa malinconia – tenta sempre di dare alla parola “socialismo” una definizione che sia allo stesso tempo attuale e ben distinta dalle politiche dell'Ump [Union pour un mouvement populaire] (9).
L'obiettivo, in questo caso, consiste nel dichiararsi di sinistra senza mai adottare, nei fatti, alcuna posizione politica di sinistra – ben sapendo, ciò che facilità ulteriormente le cose, che la critica radicale del capitalismo non è considerata molto attuale. Ma noialtri americani abbiamo finalmente trovato la soluzione. Noi discutiamo all'infinito sull'identità, inventando distinzioni come: opporsi alla discriminazione positiva (poiché, sostengono i repubblicani, è discriminazione contro i bianchi!) sarebbe una posizione di destra, sostenere la discriminazione positiva (in quanto, replicano i democratici, è una riparazione che dobbiamo ai neri per gli anni di discriminazione che abbiamo imposto loro!) sarebbe di sinistra. Bene, noi ce ne occupiamo.
Basta confrontare i doveri legati alla diversità (tutti devono essere gentili con tutti) con quelli che comporta l'eguaglianza (qualcuno deve rinunciare alla propria ricchezza) per capire quanto l'impegno per la diversità abbia trasformato il progetto politico della sinistra americana in un programma il cui fine è che i ricchi di carnagione o di orientamento sessuale diverso si sentano più a loro agio senza toccare la materia che, tra tutte, li rende più a loro agio: i loro soldi.
Depotenziare la questione sociale riformulandola come problema di identità culturale Non è sempre stato così. Il militante dei diritti civili Bobby Seale, co-fondatore nel 1966 del partito delle Black Panther negli Stati uniti, ammoniva i suoi compagni: Chi spera di oscurare la nostra lotta anteponendo l'esistenza di differenze etniche aiuta la conservazione dello sfruttamento di massa: bianchi poveri, neri poveri, ispanici poveri, indiani, cinesi e giapponesi poveri. Per Seale, le cose erano chiare: Non combatteremo lo sfruttamento capitalistico grazie ad un capitalismo nero. Combatteremo il capitalismo grazie al socialismo (10). L'allontanamento da quest'ultima prospettiva doveva avere come corollario il riavvicinamento a un capitalismo nero?
Non contenti di sostenere che il nostro vero problema è la differenza culturale, e non la differenza economica, abbiamo cominciato a considerare quest'ultima come se essa stessa fosse una differenza culturale.
Ci si attende da noi, oggi, un maggior rispetto nei confronti dei poveri e che cessiamo di considerarli come vittime – in quanto trattarli da vittime significherebbe dimostrare commiserazione nei loro confronti, negare la loro individualità.
Ebbene, se riusciamo a convincerci che i poveri non sono persone che chiedono soldi ma che chiedono rispetto, allora il problema da risolvere è il nostro atteggiamento nei loro confronti, e non la loro povertà. Possiamo dunque concentrare i nostri sforzi riformatori non verso la soppressione delle classi, ma verso l'eliminazione di ciò che noi, gli americani, chiamiamo classismo. Il trucco, in altri termini, consiste nell'analizzare la diseguaglianza come una conseguenza dei nostri pregiudizi piuttosto che del nostro sistema sociale: si sostituisce così al progetto di creare una società più egualitaria quello di condurre gli individui (noi, e soprattutto gli altri) a rinunciare al loro razzismo, al loro sessismo, al loro classismo e alla loro omofobia.
Questa strategia può essere adottata anche dalla Francia. A tale proposito, l'interminabile dibattito suscitato dalla vicenda del velo nelle scuole può essere considerato una prova promettente.
In un certo senso, infatti, si trattava, come ha sottolineato Pierre Tévanian, di un falso dibattito – le poche ragazze che portavano il velo non rappresentavano alcuna minaccia per la Francia o per il sistema educativo francese, e il loro scopo non era mettere in discussione il principio stesso della laicità. Perché, dunque, questo dibattito ha raggiunto una simile ampiezza? Per Tévanian, la risposta dipende da un razzismo latente, che si ritrova in ogni ceto sociale e in tutte le famiglie politiche (11). Ma questa risposta è esatta solo parzialmente – si potrebbe dire sintomaticamente. Poiché il dibattito sul velo ha anche portato alla luce la forza di seduzione dell'antirazzismo degli uni, e d'altronde l'antisessismo degli altri.
Ridistribuire le diseguaglianze senza distinzione di origine e di sesso, o eliminarle?
Ogni parte politica ha potuto scatenarsi, l'una accusando l'altra di razzismo, mentre la seconda inscenava un processo per sessismo contro la prima – Voi siete contro il velo islamico perché disprezzate i diritti dei musulmani! Voi siete favorevoli solo perché disprezzate i diritti delle donne musulmane!. Ciò che alimentò il successo è il fatto che, come nella polemica sulla discriminazione positiva negli Stati uniti, tale dibattito non si allontanava mai dalla questione dell'identità.
Non mancheranno le occasioni di affrontare nuove tematiche per controversie di questo tipo; in effetti, la polemica intorno alla memoria e alla storia di Francia offre un modello riproducibile all'infinito. Mentre la sinistra movimentista deplora – attraverso la voce degli indigeni – che la Francia trascuri del tutto la riabilitazione e la promozione della nostra storia nello spazio pubblico (corsivo dell'autore), la destra conservatrice – con la voce di Finkielkraut e consorti – ritiene che gli Indigeni dovrebbero considerare la storia della Francia come la loro storia, o ricordarsi che hanno il diritto di partire (12).
E mentre Finkielkraut si mostra particolarmente duro nei confronti di chi reclama un pentimento francese per le malefatte e i crimini commessi in passato, i suoi allievi all'Ecole Polytechnique (che, una volta divenuti dirigenti d'azienda, non avranno alcun desiderio di vedere tutta questa manodopera a basso costo esercitare il suo diritto di partire) non tarderanno a imparare la lezione che i loro colleghi americani hanno assimilato dopo molto tempo: manifestare rispetto nei confronti delle persone – per la loro cultura, la loro storia, la loro sessualità, il loro abbigliamento, e così via – costa molto meno che versare loro un buon salario.
Coautore di un saggio su La diversité dans l'entreprise. Come realizzarla?
(Editions d'organisation, 2006), l'imprenditore milionario Yazid Sabeg ha lanciato nel novembre 2008 un manifesto coraggiosamente intitolato Oui, nous pouvons (13)!; il mese seguente, il capo dello stato lo nominava commissario alla diversità e alle pari opportunità.
L'America ha confermato la validità di un modello democratico fondato sull'equità e sulla diversità, proclama il manifesto, firmato da personalità di destra e di sinistra e sostenuto da Carla Bruni-Sarkozy.
La quale ritiene che bisogna aiutare le élite a cambiare. Non per mettere in discussione alcunché, ma per renderle più nere, più multiculturali, più femminili – il sogno americano.