13:57 – 09/09/09 – Giorgio Stracquadanio e la S(q)uola I(TAGLI)ana..

Video Courtesy TerritorioScuola – Servizio di Claudio Messora

Giorgio Stracquadanio, deputato PDL e consulente politico di Maria Stella Gelmini, viene intervistato da RaiNews24.

Giorgio Stracquadanio dice: «Fino all’anno scorso, dipendevano dal Ministero della Pubblica Istruzione 1 milione e 300 mila persone. Il piano di riduzione prevede che in 3 anni si passi a 1 milione e duecentomila. Come si attua e perché si attua questa riduzione? Uno, si attua perché essendoci meno studenti, occorrono meno insegnanti.»

Ma non è Pereira..
Ma non è Pereira..

Giorgio Stracquadanio dice che ci sono meno studenti. Ma è vero?  Ecco i dati per l’anno scolastico 2009/2010:

  1. Scuola materna: per la prima volta supereremo il milione di bambini. 28 mila in più dell’anno scorso. Una media di quasi 24 bambini per classe.
  2. Scuola media: da settembre ci saranno 18 mila studenti in più. Contestualmente, ci saranno ben 120 classi in meno.
  3. Scuola superiore: Dai 21,8 alunni per classe dello scorso anno, si passa a 22,1 alunni. Ci saranno classi con più di 30 alunni, esclusi uno o più eventuali alunni disabili.
  4. Disabili: sarà l’anno record per la presenza di alunni disabili: oltre 178 mila contro i 176.000 dell’anno scorso. Gli insegnanti di sostegno, tuttavia, restano invariati: 90.469.

Giorgio Stracquadanio dice: «Il giornalismo italiano è quello che questi numeri non dice.»

O è lui che questi numeri non li dà?

Giorgio Stracquadanio dice: «Quello che deve essere chiaro a tutti è che la scuola ha smesso definitivamente di essere un ammortizzatore sociale, quello per il quale si va a scuola non perché si ha una vocazione a insegnare, si fa un concorso e lo si vince, ma per cui si cerca un posto qualunque e si spera in una sanatoria.»

Giorgio Stracquadanio dice che i precari non hanno vinto nessun concorso, e che scelgono la scuola come si sceglierebbe un posto qualunque. Ma è vero?

Nella scuola lavorano due tipologie di precari: quelli abilitati e quelli non abilitati. In entrambi i casi, sono inseriti in graduatorie stilate sulla base di titoli posseduti e quindi di una professionalità ritenuta idonea al ruolo da ricoprire. I precari abilitati hanno sostenuto un concorso, e in alcuni casi anche un corso propedeutico della durata di 1 o 2 anni, per ottenere l’abilitazione, ossia quel titolo con validità ministeriale che permette di essere inseriti nelle graduatorie ad esaurimento. I concorsi e i corsi per accedere a tali graduatorie, stilate per assegnare contratti a tempo indeterminato e determinato nella scuola, sono stati organizzati dallo stesso Ministero dell’Istruzione, con la partecipazione delle università che hanno certificato conoscenze e competenze idonee per l’insegnamento di una precisa materia.
I precari abilitati hanno effettuato un lungo percorso verso il ruolo – l’assegnazione di una cattedra a tempo indeterminato. Hanno acquisito conoscenze e competenze specifiche, certificate, in anni di servizi svolti anche in scuole diverse, spesso non percependo che 10 mensilità annuali.

Giorgio Stracquadanio dice: «Ci dobbiamo interessare a lungo di una cena a cui partecipa il presidente del Consiglio.»

Una cena, caro Stracquadanio, cui parteciparono:

  1. Silvio Berlusconi (presidente del Consiglio);
  2. Angelino Alfano (Ministro della Giustizia);
  3. Niccolò Ghedini (avvocato di Berlusconi e parlamentare PDL)
  4. Carlo Vizzini (presidente commissione Affari Costituzionali al Senato della Repubblica)
  5. Luigi Mazzella (giudice della Corte Costituzionale)
  6. Paolo Maria Napolitano (giudice della Corte Costituzionale)

Il 6 ottobre 2009 la Consulta giudicherà sulla legittimità costituzionale del Lodo Alfano, che rende immuni le quattro più alte cariche dello stato dalla mano della giustizia. Il lodo Alfano porta il nome del commensale n°2; è stato scritto in toto, in parte, o con la fondamentale consulenza del commensale n°3; è già servito a salvare il commensale n°1 dal processo per corruzione sul caso Mills, e verrà votato dai commensali n°5 e n°6. Potrebbe essere stata l’ultima cena. L’ultima del nostro ordinamento democratico.

Giornalista: «Che cosa consiglia al professore qui presente (ndr: un insegnante precario di educazione fisica) che dopo 25 anni si trova a rischio di perdere il posto di lavoro?»

Giorgio Stracquadanio dice: «Io in questo momento sono un deputato. Tra 4 anni potrei non esserlo più. Sono un giornalista e non ho nessun giornale che mi attende. Non ho nessuna aspettativa. Cosa mi consiglia lei di fare, nel caso in cui io non venissi ricandidato, rieletto e perdessi il lavoro? Di darmi da fare a cercarne un altro. O sbaglio?»

Caro Giorgio Stracquadanio, …sbagli!

Fra 4 anni, al termine della legislatura, avrai la tua pensione da parlamentare.  Hai idea di quante famiglie di precari ci vivrebbero?

Fonte: Claudio Messora – ByoBlu.com

12:10 – 16/07/09 – Studiare non serve e il lavoro non c'è…

Il Corriere della Sera pubblica un articolo di Alessandra Mangiarotti sui giovani inattivi, circa settecentomila su uno studio che riguarda i giovani dal 15 ai 35 anni.

Giovani Colpiti in Volo...
Giovani Colpiti in Volo...

Giovani nè-nè vengono definiti perchè non credono che lo studio possa servire e non credono di riuscire a trovare un lavoro.

Non ci sono grandi novità da rilevare perchè è un atteggiamento riconducibile a quello che Padoa Schioppa definì inopportunamente “bamboccioni”, ricevendo notevoli e meritate critiche.

Ma il problema rimane la nostra è una gioventù iperprotetta ma anche con delle considerazioni che se non giustificano offrono un facile cuscino dove piangere invece che muoversi per trovare quello che non c’è.

Ne abbiamo parlato spesso di come il nostro sia un paese non per giovani, dove vige una scarsa mobilità sociale, dove avere il papi conta e molto, dove non conta invece la meritocrazia.

Può bastare per non impegnarsi nel trovare un lavoro, per smettere di studiare al primo scoglio, per non partecipare, pur con mille difficoltà di accesso, alla vita della comunità?

Viene da riflettere anche sui dati dei bocciati nella scuola, la Gelmini dice che questa dimostra una inversione di condotta nella scuola, dove si vede chi studia e chi non studia.

Io sono seriamente preoccupato dall’abbandono scolastico, dalle bocciature che lo provocano senza costituire un incentivo al riconoscimento del merito.

Dovrebbe essere preoccupato anche il nostro governo da queste statistiche che escono perchè se questo è il nostro futuro forse questa è davvero una emergenza.

Date però una occhiata dove si spende nel welfare in generale , tra politiche del lavoro e politiche di prevenzione sociale, per la promozione di opportunità per i giovani e capirete come davvero questo non sia un paese per giovani .

Fonte: Studiare non serve e il lavoro non c’è – Pollicino.

16:15 – 13/07/09 – Libertá, fraternitá… diversitá?

Sociologia e Divisione in Classi in Occidente (audio mp3)

Il Dibattito

Per il colore della pelle, l'orientamento sessuale, l'appartenenza religiosa, interi strati sociali vengono tenuti in disparte dalla cittadinanza ordinaria, vittime di discriminazioni. In diversi paesi, esistono invece tratti culturali, un sentimento di appartenenza, legami di solidarietà che uniscono i membri di un gruppo ad una comune storia. Non si può dunque analizzare ogni società solo attraverso i rapporti di classe. Per citare un solo esempio, ricorderemo l'esperienza amara dei sandinisti, in Nicaragua, all'inizio degli anni '80: animati da idee nobili ma eccessivamente giacobine e centralistiche, ignorarono la cultura specifica degli indios Miskitos e iniziarono contro di loro un conflitto dalle conseguenze funeste – una guerra! D'altro canto, l'Obamamania dilagante in Francia ha restituito attualità al dibattito sull'invisibilità delle minoranze visibili e alla lunga marcia degli Obama francesi. Dopo la nomina di Rachida Dati, Rama Yade e Fadela Amara al governo, il presidente Nicolas Sarkozy ha annunciato il 17 dicembre l'arrivo di Yazid Sabeg alla funzione appena creata di commissario alla diversità e alle pari opportunità. La differenza viene dunque riconosciuta e valorizzata. E addirittura amplificata! Con il rischio di rafforzare un confinamento comunitario o religioso mentre, afferma Walter Benn Michaels, il problema principale è la ricerca dell'uguaglianza economica.
Walter Benn Michaels *
Nel 2001, la questione della diversità non si poneva nemmeno; oggi, il dibattito è aperto (1) L'osservazione del quotidiano Libération salutava l'aumento (ritenuto ancora timido) del numero dei candidati di sinistra cosiddetti della diversità alle elezioni municipali del marzo 2008. Ma la sinistra non ha il monopolio della riflessione sulla diversità, in Francia. Dopotutto, Nicolas Sarkozy, pochi mesi prima, aveva proposto di inserire questo valore nel preambolo della Costituzione; il capo dello stato intende infatti accelerare decisamente l'espressione della diversità etnica (2) all'interno delle élite.

Di fronte a questa dinamica francese, un americano può provare due sentimenti contraddittori. Innanzitutto, la sorpresa: da trent'anni, la diversità occupa un ruolo sempre più importante nella vita politica, sociale e, soprattutto, economica degli Stati uniti; come hanno potuto i francesi accumulare un tale ritardo? Poi, la delusione: perché mai la Francia ha deciso infine di recuperare questo ritardo? Questo libro non risponderà alla prima domanda, che in tutta evidenza rappresenta un argomento di studio per gli storici. Si dedica però alla seconda.

Lo schieramento dei sostenitori dichiarati della diversità – dagli indigeni della Repubblica (3) al capo dello stato – rappresenta, per le sue stesse dimensioni, un principio di risposta.

Se ne possono delineare meglio i contorni esaminando un quesito posto da un militante degli Indigeni della Repubblica non sulla diversità, ma sull'eguaglianza: Cosa significa concretamente la paradossale affermazione di un'eguaglianza tra ricchi e poveri, borghesi e proletari, imprenditori ed operai, padroni e servi, bianchi e non bianchi, uomini e donne, eterosessuali e omosessuali (4)? Ciò che conta è la forma stessa dell'interrogativo, e in particolare lo slittamento strutturale che si attua quando si mette su uno stesso piano l'opposizione tra padroni e servi, da un lato, e tra bianchi e non bianchi dall'altro.

Infatti, le diseguaglianze tra bianchi e non bianchi – e tra uomo e donna, eterosessuali e omosessuali… – derivano soprattutto da discriminazioni e pregiudizi. E poiché nascono dal razzismo e dal sessismo, per eliminarle basterà sradicare il razzismo e il sessismo.

Ma le diseguaglianze tra ricchi e poveri, imprenditori e operai non nascono dal razzismo né dal sessismo: esse derivano dai rapporti di proprietà e dal capitalismo. In materia di diseguaglianza economica, il razzismo e il sessismo funzionano come sistemi di smistamento: non generano la diseguaglianza in sé, ma ne distribuiscono gli effetti.

Ecco perché anche la più completa sconfitta di razzismo e sessismo non colmerebbe il divario tra ricchi e poveri; essa modificherebbe solo la sua ripartizione per sesso, inclinazione sessuale e colore della pelle. Una Francia in cui un maggior numero di neri fosse ricco non sarebbe automaticamente più egualitaria, ma solo un paese in cui il divario tra neri poveri e neri ricchi sarebbe maggiore.

Senza dubbio, la situazione francese presenta le sue peculiarità: dal dopoguerra fino alla fine degli anni '70, le correnti dominanti della sinistra si preoccupavano esclusivamente dell'uguaglianza economica.

Le questioni relative al femminismo, al razzismo, all'omosessualità ecc. erano relegate al rango di contraddizioni secondarie o semplicemente ignorate. Ma, in un quarto di secolo, la situazione è evoluta al punto da rovesciare l'ordine delle priorità: a partire dalla svolta liberale del 1983, la lotta contro le discriminazioni (illustrata in particolare da Sos-Racisme) ha preso il posto della fine del capitalismo, nella gerarchia degli obiettivi. Poiché esso si è spesso sostituito (invece di aggiungersi) alla lotta per l'eguaglianza, l'impegno in favore della diversità ha indebolito gli argini politici che contenevano la spinta liberale.

Un impegno tanto più consensuale in quanto non comporta alcuna redistribuzione di ricchezza La volontà di sconfiggere razzismo e sessismo si è rivelata compatibile con il liberismo economico, mentre la volontà di ridurre – non parliamo neppure di colmare – la distanza tra ricchi e poveri non lo è. Mentre esibiva il suo impegno in favore della diversità (combattendo i pregiudizi, ma anche celebrando le differenze), la classe dirigente francese ha accentuato la sua vocazione liberista. Questa tendenza, caratteristica della destra (cos'altro incarna Sarkozy?), si ritrova spesso nelle persone che si dichiarano di sinistra. In realtà, mentre la questione dell'identità nazionale rafforza il suo impatto sulla vita intellettuale francese – che la si celebri (il presidente della Repubblica) o che la si combatta (gli indigeni) – essa nasconde l'aumento delle disuguaglianze economiche che caratterizza il neoliberismo in tutto il mondo.

Non è certo mia intenzione sostenere che la discriminazione positiva (o l'impegno per la diversità in generale) aumenti le disuguaglianze.

Si tratta piuttosto di dimostrare che la concezione di giustizia sociale che sottintende la lotta per la diversità – i nostri problemi sociali fondamentali deriverebbero dalla discriminazione e dall'intolleranza piuttosto che dallo sfruttamento – si fondi anch'essa su una visione neoliberista. Si tratta, d'altro canto, di una parodia di giustizia sociale che ammette l'allargamento del divario economico tra ricchi e poveri finché tra i ricchi vi siano tanto (in proporzione) neri, bruni e gialli quanto bianchi, tanto donne quanto uomini, tanto omosessuali quanto eterosessuali. Una giustizia sociale che, in altri termini, accetta le ingiustizie generate dal capitalismo. E che ottimizza anche il sistema economico distribuendone le diseguaglianze senza distinzione di origine né di genere. La diversità non è un mezzo per instaurare eguaglianza; è un metodo di gestione della diseguaglianza.

Nonostante il loro tardivo avvicinamento alla causa della diversità e del neoliberismo, le classi dirigenti francesi imparano rapidamente.

Nel rapporto annuale 2006 dell'Alta Autorità nella lotta contro le discriminazioni e per l'eguaglianza (Halde), il presidente Louis Schweitzer espone la sua singolare visione di uguaglianza: Se si crede all'eguaglianza, l'assenza di diversità è il segno visibile di discriminazioni o di pari opportunità poco garantite (5). Insomma, se quelli che guadagnano più soldi di tutti sono solo bianchi e uomini, c'è un problema: se tra loro ci sono neri, scuri e donne, non c'è problema. Se la vostra origine o il vostro sesso vi priva delle possibilità di successo offerte agli altri, c'è un problema; se è la vostra povertà, va tutto bene.

Un certo numero di commentatori ritiene che la fonte stessa di tali riflessioni meriti cautela. D'altra parte, Schweitzer ha diretto a lungo la Renault, un'impresa condannata numerose volte per discriminazioni sindacali. In realtà, queste due obiezioni mancano il bersaglio.

Il problema della Halde non consiste nella scarsa diversità del comitato che la dirige. Se pure quest'istituzione rivaleggiasse in diversità con la squadra nazionale di Francia che fu campione del mondo di calcio nel 1998, la società francese non risulterebbe affatto meno diseguale, sul piano economico, per un goal segnato da Zinedine Zidane o da Lilian Thuram.

Il problema non è nemmeno che Schweitzer si sia reso responsabile di discriminazioni sindacali: non vi è alcuna ipocrisia nell'opporsi ai sindacati di sinistra mentre si sostiene la diversità. Analogamente, non vi è alcun conflitto tra la conservazione delle élite e la loro diversificazione: ci si sforza di diversificarle per legittimarle, non per eliminarle.

Da uomo d'affari navigato qual è, Schweitzer sa che l'impegno in favore della diversità rappresenta tanto una strategia manageriale quanto una posizione politica. La questione suscita d'altronde passioni altrettanto potenti nelle scuole di economia che tra gli Indigeni della Repubblica. Preoccupati di offrire ai futuri dirigenti di impresa una prospettiva “globale” dell'interculturalismo nel campo degli affari, Carlos e Javier Rabassó hanno pubblicato nel settembre 2007 una Introduzione al management interculturale. Per una gestione della diversità (6). Il saggio, che affianca nella stessa collana titoli come Marketing delle attività terziarie, Finanza di mercato, Strategia finanziaria e Il coaching in cinque tappe, riserva sorprese a chi si avventura all'interno dei capitoli dedicati alla diversità: praticamente ogni riga potrebbe essere stata scritta dagli estremisti di sinistra degli Indigeni della Repubblica.

Per esempio, la critica da parte di uno dei loro dirigenti, Sadri Khiari, nei confronti della sinistra unitaria (occuparsi della diversità culturale su scala mondiale ma non nella stessa Francia (7)) fa rima con quella dei fratelli Rabassó all'indirizzo dei governi europei, che sottintendono la diversità tranne che all'interno dei confini nazionali (p. 168). E così come gli Indigeni chiamano lo stato e la società a operare una riflessione critica sull'universalismo egualitario, affermato durante la Rivoluzione Francese (L'appello degli indigeni della Repubblica), i nostri due professori di marketing invocano una nuova “rivoluzione francese” fondata sui temi controversi della diversità, della discriminazione e dell'azione positiva (p.

194).

Cosa può significare il fatto che dei rappresentanti del mondo degli affari e dei discendenti dei nonni posti in schiavitù, colonizzati, animalizzati condividano la stessa visione del mondo? Che la diversità, nella sua accezione più ampia (origini etniche, sesso, handicap, età, orientamento sessuale) ha acquisito quello che il quotidiano finanziario Les Echos definisce uno status di imperativo economico (8) e che la sinistra si dimostra altrettanto pronta della destra a entusiasmarsi per questo nuovo imperativo.

In altri termini, che la logica secondo cui le questioni sociali fondamentali riguardano il rispetto delle differenze identitarie e non la riduzione delle differenze economiche comincia a diffondersi in Francia come già è avvenuto negli Stati uniti. Qui come laggiù, la destra neoliberista ha finalmente trovato una sinistra neoliberista che rivendica ciò che la destra è fin troppo felice di concederle.

E, quando si tratta di rendere il mercato del lavoro e il mercato finanziario più efficiente sviluppando la diversità in seno alle imprese (l'imperativo economico), questa sinistra rinnovata si mostra addirittura impaziente di svolgere un ruolo di avanguardia.

Parlare di convergenza tra destra neoliberista e sinistra neoliberista riguardo alla diversità può apparire sorprendente. Dopo tutto, Sarkozy non è stato eletto, nel 2007, sulla base di un programma che esaltava l'identità nazionale? Non ha forse, nel corso della campagna, conquistato gli intellettuali più conservatori, come Alain Finkielkraut? E una volta eletto non si è forse affrettato a instaurare un ministero dell'immigrazione e dell'identità nazionale? Tuttavia, poco dopo l'inaugurazione del ministero, Sarkozy dichiarava nel gennaio 2008: La diversità fa bene a tutti. Per poi annunciare che questa battaglia sarebbe stata al centro del suo mandato.

La sinistra neoliberista tuttavia continua ad attaccare spesso Sarkozy come se egli fosse davvero razzista. La spiegazione è allo stesso tempo semplice e logica: se la sinistra neoliberista non dipingesse la destra neoliberista come l'altra faccia della vecchia destra xenofoba, nulla permetterebbe di distinguere la prima dalla seconda. Così si spiega la felicità del direttore di Libération Laurent Joffrin non appena Sarkozy accenna il minimo borbottio preoccupante in tema di immigrazione e identità nazionale.

In verità, la sinistra neoliberista è essa stessa molto più vicina a Sarkozy di quanto quest'ultimo sia vicino a Jean-Marie Le Pen: entrambe sostengono il capitalismo (temperato), l'economia di mercato (regolata) e il libero scambio (ragionevole). Certo, il presidente francese ha un leggero vantaggio: se ne assume le responsabilità.

Il Partito socialista, invece – come nota lo stesso Joffrin con una certa malinconia – tenta sempre di dare alla parola “socialismo” una definizione che sia allo stesso tempo attuale e ben distinta dalle politiche dell'Ump [Union pour un mouvement populaire] (9).

L'obiettivo, in questo caso, consiste nel dichiararsi di sinistra senza mai adottare, nei fatti, alcuna posizione politica di sinistra – ben sapendo, ciò che facilità ulteriormente le cose, che la critica radicale del capitalismo non è considerata molto attuale. Ma noialtri americani abbiamo finalmente trovato la soluzione. Noi discutiamo all'infinito sull'identità, inventando distinzioni come: opporsi alla discriminazione positiva (poiché, sostengono i repubblicani, è discriminazione contro i bianchi!) sarebbe una posizione di destra, sostenere la discriminazione positiva (in quanto, replicano i democratici, è una riparazione che dobbiamo ai neri per gli anni di discriminazione che abbiamo imposto loro!) sarebbe di sinistra. Bene, noi ce ne occupiamo.

Basta confrontare i doveri legati alla diversità (tutti devono essere gentili con tutti) con quelli che comporta l'eguaglianza (qualcuno deve rinunciare alla propria ricchezza) per capire quanto l'impegno per la diversità abbia trasformato il progetto politico della sinistra americana in un programma il cui fine è che i ricchi di carnagione o di orientamento sessuale diverso si sentano più a loro agio senza toccare la materia che, tra tutte, li rende più a loro agio: i loro soldi.

Depotenziare la questione sociale riformulandola come problema di identità culturale Non è sempre stato così. Il militante dei diritti civili Bobby Seale, co-fondatore nel 1966 del partito delle Black Panther negli Stati uniti, ammoniva i suoi compagni: Chi spera di oscurare la nostra lotta anteponendo l'esistenza di differenze etniche aiuta la conservazione dello sfruttamento di massa: bianchi poveri, neri poveri, ispanici poveri, indiani, cinesi e giapponesi poveri. Per Seale, le cose erano chiare: Non combatteremo lo sfruttamento capitalistico grazie ad un capitalismo nero. Combatteremo il capitalismo grazie al socialismo (10). L'allontanamento da quest'ultima prospettiva doveva avere come corollario il riavvicinamento a un capitalismo nero?

Non contenti di sostenere che il nostro vero problema è la differenza culturale, e non la differenza economica, abbiamo cominciato a considerare quest'ultima come se essa stessa fosse una differenza culturale.

Ci si attende da noi, oggi, un maggior rispetto nei confronti dei poveri e che cessiamo di considerarli come vittime – in quanto trattarli da vittime significherebbe dimostrare commiserazione nei loro confronti, negare la loro individualità.

Ebbene, se riusciamo a convincerci che i poveri non sono persone che chiedono soldi ma che chiedono rispetto, allora il problema da risolvere è il nostro atteggiamento nei loro confronti, e non la loro povertà. Possiamo dunque concentrare i nostri sforzi riformatori non verso la soppressione delle classi, ma verso l'eliminazione di ciò che noi, gli americani, chiamiamo classismo. Il trucco, in altri termini, consiste nell'analizzare la diseguaglianza come una conseguenza dei nostri pregiudizi piuttosto che del nostro sistema sociale: si sostituisce così al progetto di creare una società più egualitaria quello di condurre gli individui (noi, e soprattutto gli altri) a rinunciare al loro razzismo, al loro sessismo, al loro classismo e alla loro omofobia.

Questa strategia può essere adottata anche dalla Francia. A tale proposito, l'interminabile dibattito suscitato dalla vicenda del velo nelle scuole può essere considerato una prova promettente.

In un certo senso, infatti, si trattava, come ha sottolineato Pierre Tévanian, di un falso dibattito – le poche ragazze che portavano il velo non rappresentavano alcuna minaccia per la Francia o per il sistema educativo francese, e il loro scopo non era mettere in discussione il principio stesso della laicità. Perché, dunque, questo dibattito ha raggiunto una simile ampiezza? Per Tévanian, la risposta dipende da un razzismo latente, che si ritrova in ogni ceto sociale e in tutte le famiglie politiche (11). Ma questa risposta è esatta solo parzialmente – si potrebbe dire sintomaticamente. Poiché il dibattito sul velo ha anche portato alla luce la forza di seduzione dell'antirazzismo degli uni, e d'altronde l'antisessismo degli altri.

Ridistribuire le diseguaglianze senza distinzione di origine e di sesso, o eliminarle?

Ogni parte politica ha potuto scatenarsi, l'una accusando l'altra di razzismo, mentre la seconda inscenava un processo per sessismo contro la prima – Voi siete contro il velo islamico perché disprezzate i diritti dei musulmani! Voi siete favorevoli solo perché disprezzate i diritti delle donne musulmane!. Ciò che alimentò il successo è il fatto che, come nella polemica sulla discriminazione positiva negli Stati uniti, tale dibattito non si allontanava mai dalla questione dell'identità.

Non mancheranno le occasioni di affrontare nuove tematiche per controversie di questo tipo; in effetti, la polemica intorno alla memoria e alla storia di Francia offre un modello riproducibile all'infinito. Mentre la sinistra movimentista deplora – attraverso la voce degli indigeni – che la Francia trascuri del tutto la riabilitazione e la promozione della nostra storia nello spazio pubblico (corsivo dell'autore), la destra conservatrice – con la voce di Finkielkraut e consorti – ritiene che gli Indigeni dovrebbero considerare la storia della Francia come la loro storia, o ricordarsi che hanno il diritto di partire (12).

E mentre Finkielkraut si mostra particolarmente duro nei confronti di chi reclama un pentimento francese per le malefatte e i crimini commessi in passato, i suoi allievi all'Ecole Polytechnique (che, una volta divenuti dirigenti d'azienda, non avranno alcun desiderio di vedere tutta questa manodopera a basso costo esercitare il suo diritto di partire) non tarderanno a imparare la lezione che i loro colleghi americani hanno assimilato dopo molto tempo: manifestare rispetto nei confronti delle persone – per la loro cultura, la loro storia, la loro sessualità, il loro abbigliamento, e così via – costa molto meno che versare loro un buon salario.

Coautore di un saggio su La diversité dans l'entreprise. Come realizzarla?

(Editions d'organisation, 2006), l'imprenditore milionario Yazid Sabeg ha lanciato nel novembre 2008 un manifesto coraggiosamente intitolato Oui, nous pouvons (13)!; il mese seguente, il capo dello stato lo nominava commissario alla diversità e alle pari opportunità.

L'America ha confermato la validità di un modello democratico fondato sull'equità e sulla diversità, proclama il manifesto, firmato da personalità di destra e di sinistra e sostenuto da Carla Bruni-Sarkozy.

La quale ritiene che bisogna aiutare le élite a cambiare. Non per mettere in discussione alcunché, ma per renderle più nere, più multiculturali, più femminili – il sogno americano.

Note:* Docente di letteratura all'università dell'Illinois di Chicago, autore di La Diversité contre l'égalité, in uscita il 19 febbraio per le edizioni Raisons d'agir (Parigi), di cui pubblichiamo l'introduzione.

(1) Libération, Parigi, 8-9 marzo 2008.

(2) Associated Press (Ap), 27 novembre 2008.

(3) Il Movimento degli Indigeni della Repubblica – Mouvement des Indigènes de la République (Mir) – è nato nel gennaio 2005 dopo la pubblicazione dell'Appel des Indigènes de la République. Il Mir combatte le disuguaglianze razziali che relegano i neri, gli arabi e i musulmani ad uno status analogo a quello degli indigeni nelle antiche colonie e lotta contro ogni forma di supremazia bianca su scala internazionale. Intende creare un partito politico. Cfr. www.indigenes-republique.fr.

(4) www.lmsi.net, ottobre 2005.

(5) www.halde.fr/rapport-annuel/2006.

(6) Carlos A e Javier Rabassó, Introduction au management interculturel.

Pour une gestion de la diversité, Ellipses, Parigi, 2007, p. 7.

(7) Sadri Khiari, www.indigenes-republique.org, 18 novembre 2006

(8) Mieux gèrer la diversité dans l'entreprise, Les Echos, Parigi, 22 febbraio 2008.

(9) Libération, 31 marzo 2008.

(10) Bobby Seale, Cogliere l'occasione? La storia del Black Panther Party e di Huey P. Newton, Einaudi, Torino, 1971.

(11) Pierre Tévanian, Le Voile médiatique. Un faux débat: l'affaire du foulard islamique, Raisons d'agir, Parigi, 2005, p.

(12) Alain Finkielkraut, Quelle sorte de Français sont-ils? intervista con Dror Mishani e Aurelia Smotriez, Haaretz, Tel Aviv, 17 novembre 2005.

(13) Le Journal du dimanche, Parigi, 9 novembre 2008.

(Traduzione di A. D'A.)

Fonte: Le Monde Diplomatique